Schmitt e quella complessità (in)nata in un matrimonio

A vent’anni si vorrebbe che l’amore fosse semplice.
A quaranta si scopre che è complicato.
A sessanta sappiamo che è bello proprio perché è complicato

                                                                                                                            Eric-Emmanuel Schmitt

 

 

Un appartamento elegante e dall’allure intellettuale.

Una coppia di borghesi sulla sessantina i cui capelli bianchi non hanno scalfito la loro fanciullezza innata.

Un momento di vita, quotidiano e banale.

Gilles e Lisa rientrano dall’ospedale dopo una brutta caduta dell’uomo. Fatto ordinario e ricorrente, un incidente domestico come può capitare a ognuno di noi.

 

Ma l’uomo ha perso la memoria.

Non ricorda nulla.

Non sa nulla.

Non conosce nemmeno sua moglie.

Un evento poco chiaro, stridulo, che fa  precipitare nell’oscurità quell’apparente normalità.

 

Lisa rievoca ricordi e situazioni. E racconta di Gilles. Del suo carattere, del suo lavoro, delle sue passioni e dei suoi libri. Gilles è scrittore e ha dedicato a se stesso tutte le sue opere.

Qualcosa però non lo convince in quelle descrizioni. Troppo infiocchettate, troppo piene di parole, di sospiri, di aspettative. 

 

Tratto dal testo di Eric Emmanuel Schmitt

 

“È dura dover credere agli altri per capire chi siamo”  ripete più volte.  Gilles ha perso la sua identità.  Lisa è lì per ricostruirgliela. A modo suo.

Come in una operazione chiururgica, la donna ricuce piano piano – meticolosamente – la personalità del suo uomo. Lo fa aggrappandosi ai suoi sogni. Svaniti. Alle sue aspettative. Disilluse.

Lisa plasma a suo piacimento Gilles. Proietta in questa descrizione il Gilles che voleva e non quello che ha avuto. Il Gilles che avrebbe amato. Non quello che ama ancora.

Un inganno il suo che porta l’uomo a rivelarsi. E a confessare.

Nessuna perdita di memoria.  Ma quell’irrefrenabile voglia di evadere da una routine troppo soffocata dalla sua incomunicabilità.

Nella amnesia Gilles si rifugia.

Nell’amnesia di Gilles Lisa combatte i suoi demoni e trova l’uomo che cercava.

L’amnesia è la metafora del loro smarrimento personale prima che di coppia. L’amnesia altro non è che l’emblema dell’indifferenza che ha ormai preso piede nella loro vita a due.

La coppia si scontra più volte, senza mai incontrarsi davvero.

E inizia a odiarsi. Pur amandosi.

Gilles e Lisa hanno paura di guardarsi dentro ma anche di guardare fuori. Di guardare l’altro, in profondità.

Preferiscono nascondersi nella loro inerzia, pensando che sia più semplice. Più facile. Meno doloroso.

E’ più facile infatti  perdersi nella monotonia che trovare un salvagente per salvarsi. Succede a tutti. Succede a 20, a 30, a 60 anni. Fino a quando poi non scopriamo quanto siano complessi i rapporti umani. 

Ed è proprio questo a renderli vivi.

 

Anna Bonaiuto e Michele Placido in scena al Teatro Quirino.

 

 

Il testo di Eric-Emmanuel Schmitt apre il sipario a una nuova stagione del Teatro Quirino, che ritroviamo completamente rinnovato. Una nuova veste sempre raffinata, con un cartellone anche quest’anno di alta qualità.

Tra gli autori teatrali più rappresentati sui palcoscenici di tutta Europa, Schmitt è l’investigatore dei rapporti umani, il drammaturgo che porta alla luce la complessità delle relazioni di coppia,  accettuandone il lato introspettivo, psicologico. Irrazionale e complicato. Mai domo seppur nascosto.

“Piccoli crimini coniugali” si nutre di silenzi prima ancora che di parole. Di non detto prima ancora che di dialoghi.

 

 

In fondo è il silenzio spesso a rivelarci cose che nessuna parola rivelerebbe mai. 

 

 

Giusy Genovese

 

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